Diritto di uccidere, recensione di Biagio Giordano

Diritto di uccidere, titolo originale In a lonely place (In un posto solitario), regia di Nicholas Ray, Usa, anno 1950, durata 94 minuti, con Humphrey Bogart, Gloria Grahame, Frank Lovejoy, Carl Benton Reid, genere noir.
Dixon Steele (Humphrey Bogart), reduce della seconda guerra mondiale con il grado di capitano, è un noto sceneggiatore hollywoodiano che ha contribuito al successo di numerosi film; un vero artista, specialista negli adattamenti dei romanzi per il cinema, che è in grado di riproporli in una forma espressiva originale e coinvolgente.
Dixon quindi non ama il film fotocopia, quello che garantisce un sicuro incasso mantenendo gli stessi collaudati meccanismi di spettacolo dei precedenti. Egli è alla continua ricerca di nuove ispirazioni, capaci di rendere il soggetto cinematografico hollywoodiano non banale: ossia depurato da quelle convenzioni tipo che ne impoveriscono il senso rilasciando solo labili emozioni.
Dixon è colto e sensibile, anche amabile in un certo senso, soprattutto verso chi lo rispetta, ma gli ambienti di guerra e quelli hollywoodiani, lo hanno reso, verso chi osa mettersi di traverso ai suoi intenti progettuali o gli fa offerte ingannevoli, diffidente e punitivo.
Dixon è diventato troppo duro, pronto a battersi anche con le mani contro chi lo insulta o deride. Tutto ciò, e lo si capisce via via che il racconto filmico si srotola, non è altro che un grave sintomo psichico, una provvisoria malattia psichica. Egli nasconde una timidezza (intrisa di vergogna?) le cui forze pulsionali più riposte sorgono occasionalmente e inequivocabilmente dall’inconscio.
Una timidezza che Dixon nega con astuzia a se stesso, rifiutando l’elaborazione del disagio altro con cui la percepisce, ciò avviene con la complicità di quella parte del suo io che affonda le radici nell’inconscio. La sua coscienza ha eretto un muro psichico contro l’Es, tanto da considerare ormai la propria aggressività, che ha preso il posto della timidezza, come un aspetto costituente, naturale, del suo carattere.
Ma quella negazione può essergli fatale, essa è una minaccia costante per il suo equilibrio psichico, perché è una sorta di forza rimovente, disposta anche a uccidere, con banali pretesti, pur di mantenere il segreto che la costituisce.
Dixon in diverse situazioni ha manifestato infatti intenti omicidi diretti verso alcuni uomini e donne, in circostanze che non giustificavano affatto reazioni simili. Le sue sono pulsioni mortali che si scatenano periodicamente, sdoganate dal normale controllo morale del super io, soprattutto quando quest’ultimo viene sommerso dal sopraggiungere dell’ultima forza inconscia posta a difesa del complesso della timidezza (quest’ultima probabilmente legata agli effetti di un processo edipico sempre in corso).
Dixon paga tutto ciò con ripetuti fallimenti in ogni tipo di relazione, che avvengono quando scopre che la sua inquietudine è troppo singolare, indomabile, restia ad ogni compromesso, e quella degli altri invece perlomeno si placa quando viene vissuta nell’ambito di amicizie vere, trasparenti negli animi.
Film di straordinaria suggestione filmica, creatore con le immagini di un altrove immaginifico raro, dove la curiosità per ciò che accade si compone via via sempre più di forme identificative potenti, che si fondono coi protagonisti, trasportando lo spettatore su un terreno psichico da intrattenimento che sa di magico. Una magia che risulta rafforzata anche dall’emergere di pulsioni adolescenziali, le quali si impongono con calore, richiamate dal buio ipnotico della sala grazie alle impressioni di realtà suscitate dalle immagini in movimento.
Un film che sa come far lievitare il reale verso una dimensione surreale, sorretto com’è dalla fantasia del regista e da interpretazioni superlative che annullano l’effetto finzione tipico delle ottime recitazioni.

Diritto di uccidere, recensione di Biagio Giordanoultima modifica: 2019-04-19T10:40:23+02:00da biagiord
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