Il male tra il dire e il fare, di Giancarlo Ricci

IL MALE TRA IL DIRE E IL FARE

di Giancarlo Ricci

in AA.VV., “Il male”, Raffaello Cortina, Milano 2000

Se il male risuona come un nome dai mille volti è forse perché la sua natura è metamorfica, cangiante, erratica. Appare, con la sua ombra, a scompigliare la linea d’orizzonte che vorrebbe distinguere  la terra e il cielo, l’umano e il divino, la morte e la vita. “L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta”, scriveva Eraclito. Tra il visibile e l’invisibile l’innocenza e la colpa sono le maschere con cui gli umani credono di poter farsi una ragione del male, di poterlo localizzare, recintare, archiviare. Umano, troppo umano, credere di sapere da dove viene e dove va.

Ripercorrendo i testi e il lessico freudiani, sorprende accorgersi che Freud non parla mai esplicitamente del male. L’impressione è che non crede alla sua esistenza al punto da destituirlo da ogni ipotesi ontologica, ipotesi che per secoli ha costituito un nodo, aspro e spinoso, in seno alla teologia e alla filosofia morale. Nemmeno l’inconscio, così come è formulato nella prima topica o l’Es o il Superio nella seconda, può considerarsi un sinonimo di male. La stessa considerazione vale per la voce “sintomo” o “angoscia”, o per quelle istanze più sociali da lui esplorate a partire dagli anni ‘20 come la religione, l’illusione, o la morale sessuale “civile”.

E’ pur vero che alcuni termini del lessico freudiano si avvicinano, in un certo senso sfiorandolo, al tema del male, ma sempre in modo estremamente parziale e particolare, e comunque relativo alla vita psichica soggettiva. Qualche esempio: il perturbante (das Unheimliche),  la coazione a ripetere (Wiederholungzwang), la pulsione di morte (Totestriebe), la nevrosi o la psicosi. Dunque sembra proprio che, a grandi linee, il pensiero freudiano sia esente dalla visione protestante che assegna al male uno statuto immanente e costitutivo alla realtà del mondo. Dato tutt’altro che insignificante, perché allontana la psicanalisi da ogni forma di predestinazione, di puritanesimo o di pragmaticismo.

Se in Freud il male è destituito da qualsiasi statuto ontologico, ciò è dovuto al suo sforzo di rielaborare il tema del padre, che è senza dubbio uno dei principali fili conduttori del suo itinerario intellettuale e teorico che va da Totem e tabù (1912) a Mosé e la religione monoteistica (1938).  Se la problematica del padre si trova al centro della sua riflessione è nel tentativo di risituarlo come elemento simbolico essenziale alla strutturazione psichica. La sua formulazione del mito del padre, dell’Urvater  e dell’orda primitiva, da cui discende per esempio la strutturazione dell’Edipo, è forse il punto cruciale di tutta la sua ricerca. Su un piano clinico è rilevante osservare che nella vita psichica il parricidio e l’incesto, tutt’altro che “mali” da evitare, assumono la piega di una fantasia inconscia la cui elaborazione è indispensabile al posizionamento del soggetto rispetto alla legge e alla sessualità. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito della teorizzazione freudiana della pulsione di morte: fare i conti con essa significa trovare un’altra significazione alla morte reale e al suo “male”. Annotiamo a tal proposito che la sua elaborazione intorno alla pulsione di morte può essere letta come una risposta alle varie forme di  nichilismo dell’epoca, alcune delle quali, trionfando, si sono tragicamente realizzate.

Sappiamo bene, d’altra parte, quanto Freud parli estesamente di “malattia” e di “malato”, termini presi in prestito dal discorso medico. Lungo una particolare lettura clinica prendiamo in considerazione un’ipotesi: che la “malattia”, e in generale il disagio psichico,  provenga da una sorta di offesa verso quella che possiamo chiamare “giustizia psichica”. In altre parole: ci si ammala per un torto che l’inconscio ha subìto. Il paradigma elementare di questa logica lo troviamo per esempio nella struttura del lapsus, del motto di spirito, della dimenticanza. O nel sintomo inteso come “formazione di compromesso”. La “malattia” sorge e si afferma anche come effettualità psichica della parola, come effetto del significante, direbbe Lacan. E’ in gioco la dialettica tra l’Io e l’Altro, tra ciò che si dice e ciò che si pensa, tra ciò che rimane non detto e l’indicibile, tra ciò che si immagina di fare e ciò che si fa. In una ricerca lungo alcune adiacenze tra il discorso filosofico e quello giuridico, Giorgio Agamben afferma che strutturalmente “il dire è sempre ius dicere ” (1). L’intera esperienza analitica forse potrebbe riassumersi nell’affermare che è una pratica in cui un soggetto incomincia o impara a “dire il giusto” sulla propria storia, il proprio destino e il proprio progetto. Cosa non da poco. Anche perché c’è una radicale discrepanza tra la parola e il fare: spesso la parola tradisce il fare, lo sostituisce, lo evita, lo neutralizza. E viceversa, spesso il fare uccide la parola, la mortifica, la occulta. Parafrasando la vita “nevrotica”: tra il dire e il fare c’è di mezzo il male, quel particolare male avvertito come inibizione, sintomo o angoscia.

Tra le decine di parole composte con il termine male ci soffermiamo su quelle che ci sembrano – vedremo perché – più prossime alla psicanalisi: maledizione e maleficio. Male dicere  e male fàcere  si riferiscono a un male che scaturisce nel dire e nel fare, o nello iato tra il dire e il fare. Parlando e facendo interviene un male particolare di cui la psicanalisi riconosce le forme, le strutture e anche le maschere della vita nevrotica. O meglio: il peggio è già accaduto quando la cosidetta malattia incomincia a parlare il suo idioma. Tale male non è subito evidente e manifesto ma, per così dire, rimane depositato e stratificato nella vita psichica dell’individuo. Diventa un’economia dove, osserva Freud, “la moneta nevrotica”, moneta falsa, inflazionata o non più in circolazione, cerca di attuare i suoi difficili scambi.

Il male, in un certo senso, resta in giacenza (en souffrance ) tra ciò che è stato detto e ciò che è stato fatto. Anche con tutte le varianti passive relative al verbo dire e fare: ciò che è stato udito e ciò che è stato subìto. Quante volte nell’esperienza clinica emerge come la parola di qualcun’Altro, padre o madre, sia stata malintesa e artefatta, malpensata o maltrattata? Tutt’altro che inerte, questo male relativo agli effetti della parola, rimane in vita grazie a una memoria lunghissima, non conosce dimenticanza, sa attendere il momento giusto, si intreccia e si insinua nella vita psichica. Se ha caratteristiche diaboliche, lo è nel senso letterale dell’etimo: qualcosa che si getta lì (bàllein ), di traverso (dia ). Irrompe sempre quando meno lo si aspetta.

Questo particolare male che proviene dalla parola non è una prerogativa dell’inconscio o una sua sostanza, ma consegue alla negazione dell’inconscio. La teoria linguistica di Freud, che prende avvio dalla distinzione tra “rappresentazione di parola” e “rappresentazione di cosa”, implica che la logica dell’inconscio si attiene a un rigoroso verba sunt consequentia rerum . Si tratta della forza evocativa della parola, del suo statuto simbolico che instaura una misura tra le parole e le cose. La clinica psicanalitica offre un’ampia gamma di ciò che succede quando questo statuto è offeso, sconfessato, aggirato. E’ la “parola vuota”, dirà Lacan, che può girare, andare e venire, imperversare senza che nulla accada. Se le parole perdono la loro pregnanza simbolica, se negano quel frammento di verità che recano con sé, l’inconscio restituisce molto di più di quanto è stato maltolto, malriposto, malfatto, malgiudicato, maltenuto, malpensato. L’elenco potrebbe proseguire. La maledizione e il maleficio sono pronti a presentarsi come entità non solo estranee alla vita psichica del soggetto ma talmente esterne all’Io da alimentare particolari forme di superstizione, di credenza nel demonismo, nel fato, o in qualcosa di magico.

Possiamo azzardare che la teoria freudiana della rimozione, e in particolare del ritorno del rimosso, sia una teoria in cui la temporalità gioca una partita in cui ciò che ritorna è quel “male” che il soggetto si è fatto. Volente o nolente, possiamo aggiungere per complicare le cose. Rimozione (Verdrägung ), sconfessione (Verleugnung ), forclusione (Verwerfung ), diniego (Verneinung ): sono i principali differenti termini metapsicologici individuati da Freud, ognuno dei quali funziona secondo una particolare logica. I loro effetti, talvolta devastanti talvolta meno appariscenti, affiorano con le parole stanche e desolate di chi afferma: “sto male” o “mi sento malissimo”. Enunciati la cui struttura tautologica mostra sempre la stessa faccia, non potendo (impotenza) o non riuscendo (inibizione) a mostrarne altre. E’ come un’economia autarchica che non riesce più a scambiare alcunché.

Nel racconto delle vicessitudini di questo “sto male”, l’analista è lì per ascoltare quanto passa tra il detto e il fatto, tra quanto è stato detto, stradetto, interdetto e quanto è stato fatto, artefatto e contraffatto. Siamo al “romanzo familiare dei nevrotici”. Di cui il lavoro analitico ripercorre i fili e le trame che hanno stretto il soggetto a un particolare, “malefico” o “malaugurato”, destino. Le difficoltà a dire e a intendere le pieghe e le vicende di tale destino è un lavoro che, per così dire, si svolge in senso contrario a quello operato in quel tempo in cui il male, nominiamolo all’impersonale, ha agito. Appare e irrompe dove non ce lo aspettiamo. Sempre sotto mentite spolie (rimozione) e lungo una traiettoria obliqua (resistenza).

Se ancora una volta evochiamo l’affermazione secondo cui la psicanalisi si svolge come “cura delle parole”, è per mettere in rilievo non tanto il genitivo soggettivo, ovvero come il paziente si cura delle proprie parole e del giusto racconto della propria vicenda, quanto il genitivo soggettivo: ossia come le parole, quelle dette e che rimangono come una testimonianza assoluta, si prendono cura di una particolare realtà storica soggettiva, la custodiscono come una sorta di patrimonio, la amministrano con tutte le sue risorse psichiche. Verba manent : le parole dette nel corso di un’analisi permangono, come testo e come testimonianza, al pari dei fatti. Sono macigni di pietra pronti a sfaldarsi non appena viene trovato il giusto clivaggio, o sassolini che permettono di ritrovare la via smarrita. La parola, nel suo lavoro di articolazione che Freud chiamava ripetere, ricordare, rielaborare, “disinnesca” ogni maledizione e ogni maleficio. In questo, ossia nell’eventualità che la parola rechi sollievo al male e costituisca la strada maestra della salute psichica, la psicanalisi è prossima al modo con cui il cristianesimo assegna uno statuto salvifico alla parola e al verbo.

Con queste veloci e non esaustive considerazioni ci siamo inoltrati  lungo un sentiero che conduce, in definitiva, verso il vasto tema della responsabilità. L’aver considerato la maledizione e il maleficio come i devastanti effetti di una negazione dell’inconscio implica che parlando –  nell’esperienza analitica ma non solo – ciascuno è soggetto alla responsabilità. Non potendo qui attraversare il vasto dibattito filosofico e teologico in cui il Male è stato contrapposto al Bene, proviamo per ipotesi a situare come contrario del male, non tanto il bene, quanto l’etica. In particolare la sua via maestra che è il campo della responsabilità.

Il male, forse l’unico vero male di cui gli umani sono responsabili, è quello che troviamo agli antipodi dell’etica, come ciò che la nega, la sconfessa, la avvilisce. Si tratta di una particolare accezione di male, diversa, per esempio,  da quella visione teologica sostenuta da Lutero secondo cui il male è necessario per fondare il bene, o benvenuto per legittimare ogni forma di rimedio che riesca a sconfiggere l’ultimo e definitivo male. Come in un certo senso propone il dibattito filosofico riformulato da Kant forse nel cuore dell’etica, nel suo ombelico, quasi nel suo punto cieco, troviamo il problema del male. Che rimane in bilico sul sottile crinale di una paradossale libertà. Su tale crinale, che esige la più fredda arbitrarietà e che talvolta si propone come scelta impossibile, un soggetto è chiamato a rispondere. Respòndere : impegnarsi, obbligarsi, promettere, dare la parola. Ovvero compiere un atto etico che, per così dire, sappia evitare il male, proprio o altrui, o tenerlo lontano. Che ci riesca o meno, difficile dirlo. Ma proprio in quanto atto etico, la sua riuscita paradossalmente è la cosa meno importante. L’etica infatti è tutt’altra cosa dalla precauzione. Presuppone anzi un esporsi all’impossibile. “Sembra quasi che quella dell’analizzare – afferma Freud – sia la terza di quelle professioni <<impossibili>> il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell’educare e del governare” (2).

Quella particolare responsabilità in cui si impegna il paziente nel lavoro analitico contrassegna il modo con cui egli “risponde” al proprio disagio o malessere. In assenza di questa funzione di responsabilità, che paradossalmente coincide con il metodo delle associazioni libere, prende piede la via dell’imputabilità, concetto che secondo la teoria giuridica, contrariamente a quello di responsabilità, presuppone il giudizio “per mezzo del quale qualcuno è considerato come autore di un’azione che è sottomessa a leggi e che si chiama fatto” (Kant). In breve la nevrosi e la sua economia libidica, preferisce l’imputabilità alla responsabilità, preferisce per esempio vivere di risentimento, ricriminazione, rivendicazione. Teoremi in cui è sempre l’altro ad assere situato quale agente di un male perpetrato contro il soggetto.

Modulando le figure che vanno dalla parodia alla caricatura e dalla commedia alla tragedia, il nevrotico “gestisce” il sintomo come se fosse già una condanna o una pena da scontare, dopo un processo “sommario” o “alle intenzioni”. Lo dimostra l’isteria che anticipa e crea il fatto per assumerne tutta la colpa, o il discorso ossessivo che tende a “isolare” e “rendere non avvenuto” un pensiero considerato già come un fatto criminoso. Insomma l’imputabilità è la via più facile per mettere a tacere, e dunque espiare – direbbe Freud – il senso di colpa inconscio. La funzione di responsabilità presuppone un lavoro in cui la soggettività si confronta con un’istanza etica, con un giudizio cioé che non è più “scontato”, “abbreviato” o “patteggiato”, come si usa dire oggi. “L’analisi è un giudizio” (3), affermava Lacan nel suo seminario sull’etica (1960).  Lungo queste considerazioni non è difficile scorgere una differenza tra psicoterapia e psicanalisi, ossia tra una “tecnica” che partecipa insieme a mille altre al “mercato del benessere”, e una pratica che avvia un’esperienza di verità e si confronta con l’istanza etica.

Spostando la questione della responsabilità su un piano sociale giungiamo alla grande tematica del disagio della civiltà, argomento cui Freud dedica il suo celebre saggio del 1929. Il termine disagio (Unbehagen ) che compare nel titolo, anche se in un primo momento egli aveva optato per infelicità (Unglück ), non si risolve nello “star bene” o nello “star male”. E’ vero che nel suo testo il tema della felicità è oggetto di parecchie riflessioni, come pure quello della religione, tutt’altro che condannabile in quanto illusione. Il punto è un altro: riguarda l’insistenza con cui Freud parla di civiltà (Kultur) distinguendola dalla civilizzazione ossia dal benessere materiale promosso dal “progresso”.  “Riteniamo che nulla contraddistingua meglio la civiltà [Kultur ] del fatto che essa apprezza e coltiva le più alte attività psichiche, siano queste funzioni intellettuali, scientifiche o artistiche, e attribuisce alle idee una funzione di guida nella vita umana” (4). La civiltà, afferma ancora Freud, “ha poco da temere dagli uomini colti e da chi si dedica al lavoro intellettuale”. Lo stesso psicanalista è un “portatore di civiltà”, così come la psicanalisi è un “lavoro di civiltà” (Kulturarbeit ).

La coerenza di questi pensieri porterebbe ad affermare che il lavoro analitico è un lavoro di civiltà. Significativo che nelle stesse pagine egli affermi che “il primo requisito della civiltà è la giustizia” (5). Possiamo forse azzardare l’ipotesi che “essere giusti” con l’inconscio è un’opera di civiltà.  “E’ vero che l’etica, com’è facile riconoscere – osserva ancora Freud – tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come lo sforzo di raggiungere attraverso un imperativo del Superio ciò che finora non è stato raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà” (6).

 

Come funziona e come si caratterizza oggi il disagio della civiltà, a quasi un secolo di distanza dalla nascita della psicanalisi? Come possiamo reperire e individuare i “mali” della nostra epoca? La questione rimane aperta.

Proviamo a tracciare qualche considerazione intorno a quel particolare male che può essere ravvisato nella latitanza di etica e di responsabilità. Ci pare che in un’epoca in cui mass media e istituzioni fanno a gara nel propinare su larga scala ogni genere di risposta a tutte le domande produca l’effetto di riportare l’istanza della responsabilità a un grado zero di indifferenza. Nell’era in cui trionfa una sempre più sofisticata tecnologia dell’informazione l’immaginario sociale è saturo di risposte prêt-à-porter. E’ questa sovrabbondanza di risposte, il suo “liberalismo”, ad uccidere, o quanto meno, a neutralizzare la funzione di responsabilità. Che vive, come insegna la psicanalisi, sulla punta della soggettività, sia pure nel suo aspetto “più vulnerabile”.

“Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero”. E’ un verso di Goethe che Freud cita diverse volte nella sua opera. Senza questa “riconquista” non c’è alcuna istanza di responsabilità. E nemmeno acquisizione, parola che in tedesco è Gewinn ossia guadagno, profitto, e forse potremmo aggiungere, guarigione.  L’“eredità dei padri”, per Freud idea forte e irrinunciabile, può essere inteso come quel patrimonio costituito per ciascuno da un nome, un corpo, un genere, una lingua, una storia. Se viene eluso, sconfessato o negato uno di questi elementi, l’inconscio, attenendosi alla propria “giustizia psichica”, risponderà con una “maledizione” o un “maleficio”.

La figura dell’hypokrites (colui che risponde a seconda delle circostanze), unico attore dell’antico teatro greco che impersonava voci e personaggi diversi, è quella che maggiormente assomiglia all’attuale grado di indifferenza in materia di responsabilità. “Originariamente – scrive Borges in Altre inquisizioni – un solo attore, l’ipocrita, fatto più alto dal coturno, vestito di nero o di porpora e il viso ingrandito da una maschera, divideva la scena coi dodici del coro […]. Eschilo entrò nell’ordine pitagorico, ma non sapremo mai se presentì, sia pure in modo imperfetto, quanto fosse significativo quel passaggio dall’uno al due, dall’unità alla pluralità e all’infinito” (7). E’ curioso osservare che Borges, evidenziando l’importanza dell’introduzione del secondo attore, sottolinei il “passaggio dall’unità all’infinito”. Come se si trattasse dello stesso infinito implicato nella responsabilità. Il passaggio dall’uno al due apre all’infinito. Come ritenevano gli antichi commentatori ebraici delle Scritture, si incomincia a contare dal due. E molti testi incominciano con la pagina due per far presente che la lettura non si conclude mai perché è infinita. Non a caso il termine hypocrites  rinvia al verbo krinein  con il significato di giudicare, criticare, distinguere, discernere, tenere diviso. In effetti la funzione di responsabilità presuppone,  in una complessità non esente dall’infinitudine, la scelta e la decisione. E’ in gioco, in modo radicale, un posizionamento soggettivo. Mentre l’imputabilità, avvalendosi di una sorta di determinismo, si attiene al principio binaristico innocenza-colpevolezza. Se abbiamo l’impressione che in materia di civiltà Freud neghi questo binarismo probabilmente è a causa della sua passione per l’etica.

 

NOTE

 

1) Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p.26.

2) Sigmund Freud, Analisi terminata e interminabile, in OSF, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p.531.

3) Jacques Lacan, Il Seminario. L’etica della psicoanalisi. Libro VII (1959- 1960), Einaudi, Torino 1994, p.365.

4) Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in OSF, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, p. 584.

5) Idem, p. 583.

6) Idem, p. 628.

7) Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1973, p.166.

 

Per gentile oncessione dell’autore Giancarlo Ricci dal blog

http://www.giancarloricci.net/il-male-tra-il-dire-e-il-fare/

 

 

 

 

 

 

 

Il male tra il dire e il fare, di Giancarlo Ricciultima modifica: 2014-05-26T09:42:21+02:00da biagiord
Reposta per primo quest’articolo